Finalmente poteva entrare nel laboratorio di suo padre e vedere la "macchina".
Non ricordava un singolo giorno in cui suo padre non si chiudesse dietro la porta blindata che lui stesso aveva costruito. Eppure nessuno aveva mai visto cosa fosse questo suo progetto, né quale fosse lo scopo; chiunque chiedesse informazioni riceveva un secco rifiuto. «Non è ancora pronta!», ripeteva.
Sua madre diceva che l'aveva sempre visto lavorare a quel progetto, qualche anno dopo che il cielo fosse oscurato per sempre dai fumi delle fabbriche a carbone. La povera donna doveva così occuparsi della casa e del sostentamento dell'unico figlio e del "meccanico pazzo", come ormai lo chiamavano in paese.
Morì di dolore qualche anno dopo; ma lui, ossessionato dal suo progetto, non andò neppure al funerale, anzi continuò a lavorare con più foga, quasi sentisse che la morte era vicina. Effettivamente non aveva tutti i torti: i segni della malattia si fecero sempre più evidenti sul suo volto.
Una sera, improvvisamente, dopo aver lavorato più intensamente del solito, si accasciò e con il suo ultimo respiro annunciò: «È quasi completata, ora tocca a te».
Finalmente aveva le chiavi e poteva scoprire cosa aveva costruito suo padre. Il sospetto che la macchina fosse un inutile aggregato di ingranaggi era grande, ma non voleva credere che suo padre fosse impazzito. Aprì, facendosi coraggio, e subito si lanciò ad osservare la macchina. Non aveva niente di speciale, era grande quasi quanto una caldaia, con numerosi tubi di scarico e una serie di cilindri. Si voltò: sul tavolo da lavoro non c'era nulla, eccetto una busta e un tappo.
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