Non appena si avvicinò all'ombra di un grosso albero, il guerriero conficcò la pesante spada nel terreno, al riparo dall'opprimente calura. La possente mole nera occupava completamente lo spiazzo, mentre il sudore bagnava la massiccia muscolatura: aveva corso dall'alba e ora era stremato. Prese dalla sacca un pezzo di pane e, dopo averlo fissato a lungo, assorto nei suoi pensieri, l'addentò voracemente.
Nonostante tutto, sentiva ancora il sapore del sangue, sangue innocente versato a causa della sua foga; persino i tatuaggi sulle braccia sbiadivano lentamente, ricordo della sua recente metamorfosi. Si voltò: la spada brillava al sole, sporca di sangue, macchiata in modo permanente dai suoi crimini; ai suoi occhi non appariva più come una spada, ma come la mannaia di un boia, di un carnefice crudele.
Odiava la sua razza, odiava i tatuaggi che il padre gli aveva inciso quando era diventato adulto. Ogni volta che in lui tornava quella foga, quella mostruosa sete di sangue, quei segni arcani lo bruciavano da dentro, illuminandosi come fiamme.
Se solo non fosse stato un Cient, tutto sarebbe stato diverso. Era persino fuggito da Uram, la sua patria, nella speranza che, allontanandosi dal suo popolo, avrebbe potuto placare la sua sete.
Menzogne! Neppure vivendo da eremita aveva potuto redimersi: di notte, nel sonno, la foga prendeva il sopravvento e lui, marionetta nelle mani del suo istinto, era costretto ad andare a caccia, a soddisfare i suoi appetiti.
Il gigante si alzò, le lacrime solcavano quella pelle nera come la notte e dura come il corno: avrebbe continuato il suo cammino, fuggendo in eterno da sé stesso.
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