Veramente!! E' incredibile vedere una propria creatura prendere forma, non essere più solamente fatta di parole, ma divenire una vera e propria immagine!! :) beh il creaturo (non so che nome dargli, consigliatemi voi!) del racconto "Il tesoro" ha finalmente fatto la sua apparizione!! Ringrazio veramente il mio caro amico Carlo per avermi fatto questo favore, e consiglio a tutti voi di andare a vedere non solo il creaturo qui, ma tutto il suo blog, con spettacolari disegni!!
Grazie ancora!
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martedì 12 marzo 2013
mercoledì 6 marzo 2013
La fuga
Non appena si avvicinò all'ombra di un grosso albero, il guerriero conficcò la pesante spada nel terreno, al riparo dall'opprimente calura. La possente mole nera occupava completamente lo spiazzo, mentre il sudore bagnava la massiccia muscolatura: aveva corso dall'alba e ora era stremato. Prese dalla sacca un pezzo di pane e, dopo averlo fissato a lungo, assorto nei suoi pensieri, l'addentò voracemente.
Nonostante tutto, sentiva ancora il sapore del sangue, sangue innocente versato a causa della sua foga; persino i tatuaggi sulle braccia sbiadivano lentamente, ricordo della sua recente metamorfosi. Si voltò: la spada brillava al sole, sporca di sangue, macchiata in modo permanente dai suoi crimini; ai suoi occhi non appariva più come una spada, ma come la mannaia di un boia, di un carnefice crudele.
Odiava la sua razza, odiava i tatuaggi che il padre gli aveva inciso quando era diventato adulto. Ogni volta che in lui tornava quella foga, quella mostruosa sete di sangue, quei segni arcani lo bruciavano da dentro, illuminandosi come fiamme.
Se solo non fosse stato un Cient, tutto sarebbe stato diverso. Era persino fuggito da Uram, la sua patria, nella speranza che, allontanandosi dal suo popolo, avrebbe potuto placare la sua sete.
Menzogne! Neppure vivendo da eremita aveva potuto redimersi: di notte, nel sonno, la foga prendeva il sopravvento e lui, marionetta nelle mani del suo istinto, era costretto ad andare a caccia, a soddisfare i suoi appetiti.
Il gigante si alzò, le lacrime solcavano quella pelle nera come la notte e dura come il corno: avrebbe continuato il suo cammino, fuggendo in eterno da sé stesso.
Nonostante tutto, sentiva ancora il sapore del sangue, sangue innocente versato a causa della sua foga; persino i tatuaggi sulle braccia sbiadivano lentamente, ricordo della sua recente metamorfosi. Si voltò: la spada brillava al sole, sporca di sangue, macchiata in modo permanente dai suoi crimini; ai suoi occhi non appariva più come una spada, ma come la mannaia di un boia, di un carnefice crudele.
Odiava la sua razza, odiava i tatuaggi che il padre gli aveva inciso quando era diventato adulto. Ogni volta che in lui tornava quella foga, quella mostruosa sete di sangue, quei segni arcani lo bruciavano da dentro, illuminandosi come fiamme.
Se solo non fosse stato un Cient, tutto sarebbe stato diverso. Era persino fuggito da Uram, la sua patria, nella speranza che, allontanandosi dal suo popolo, avrebbe potuto placare la sua sete.
Menzogne! Neppure vivendo da eremita aveva potuto redimersi: di notte, nel sonno, la foga prendeva il sopravvento e lui, marionetta nelle mani del suo istinto, era costretto ad andare a caccia, a soddisfare i suoi appetiti.
Il gigante si alzò, le lacrime solcavano quella pelle nera come la notte e dura come il corno: avrebbe continuato il suo cammino, fuggendo in eterno da sé stesso.
martedì 5 marzo 2013
La prigione (parte seconda)
Arewen gli strinse il polso, curiosa come solo i bambini sanno essere. «E poi cos'è successo? Cosa avete fatto?»
Enhand deglutì, tormentato. «Niente, ci siamo semplicemente rifiutati di aiutarli. Sai, spesso rimpiango di non aver agito con violenza, se li avessi spaventati ora tua madre sarebbe viva. I mortali non accettarono il nostro rifiuto e, approfittando delle tenebre, ci attaccarono; tua madre fu la prima vittima della loro crudeltà. Eppure non potevamo difenderci, non riuscivamo a liberarci di quella dannata sensibilità. Per me fu diverso. Nell'istante in cui tua madre cadde tra le mie braccia, qualcosa in me cambiò, il mio spirito rifiutò la sua umanità, trasformandomi in un vero e proprio dio. Negli occhi di quegli esseri vidi venerazione timorosa, ma non me ne importava nulla. Ero cambiato, non ero più Enhand, ma l'universo stesso; non seguivo ciò che era giusto, ma ciò che era necessario. Così, con un solo sguardo, ridussi in cenere i mortali; poi, nello stesso luogo in cui tua madre morì, eressi questa torre inespugnabile, al cui interno sigillai tutti noi.»
Arewen lo fissò, furiosa. «Ma non è giusto!»
Enhand scosse la testa, afflitto. «Non ho fatto ciò che è giusto, ma ciò che è necessario»
Furiosa, Arewen si allontanò dal padre, totalmente chiuso in sé stesso, quasi assorto, mentre dentro di lui sapeva che la bambina aveva ragione.
La dea si avvicinò lentamente alla porta nera, immutabile, fusa con le stesse pareti. L'aveva sempre spaventata, quasi le togliesse il respiro, la schiacciasse. Se solo avesse potuto uscire da lì, non desiderava altro. Appoggiò timorosa la mano, toccando la porta con le lacrime agli occhi.
La porta cominciò a tremare, quasi avesse ascoltato i suoi desideri; Arewen la fissò entusiasta, ma questa non si aprì, era ancora sigillata all'interno di quella maledetta torre.
Si allontanò, delusa, cercando conforto ammirando il suo amato paesaggio; alle sue spalle, dolcemente, un ramo d'edera cominciò ad infiltrarsi all'interno della torre, aprendo leggermente la porta.
Enhand deglutì, tormentato. «Niente, ci siamo semplicemente rifiutati di aiutarli. Sai, spesso rimpiango di non aver agito con violenza, se li avessi spaventati ora tua madre sarebbe viva. I mortali non accettarono il nostro rifiuto e, approfittando delle tenebre, ci attaccarono; tua madre fu la prima vittima della loro crudeltà. Eppure non potevamo difenderci, non riuscivamo a liberarci di quella dannata sensibilità. Per me fu diverso. Nell'istante in cui tua madre cadde tra le mie braccia, qualcosa in me cambiò, il mio spirito rifiutò la sua umanità, trasformandomi in un vero e proprio dio. Negli occhi di quegli esseri vidi venerazione timorosa, ma non me ne importava nulla. Ero cambiato, non ero più Enhand, ma l'universo stesso; non seguivo ciò che era giusto, ma ciò che era necessario. Così, con un solo sguardo, ridussi in cenere i mortali; poi, nello stesso luogo in cui tua madre morì, eressi questa torre inespugnabile, al cui interno sigillai tutti noi.»
Arewen lo fissò, furiosa. «Ma non è giusto!»
Enhand scosse la testa, afflitto. «Non ho fatto ciò che è giusto, ma ciò che è necessario»
Furiosa, Arewen si allontanò dal padre, totalmente chiuso in sé stesso, quasi assorto, mentre dentro di lui sapeva che la bambina aveva ragione.
La dea si avvicinò lentamente alla porta nera, immutabile, fusa con le stesse pareti. L'aveva sempre spaventata, quasi le togliesse il respiro, la schiacciasse. Se solo avesse potuto uscire da lì, non desiderava altro. Appoggiò timorosa la mano, toccando la porta con le lacrime agli occhi.
La porta cominciò a tremare, quasi avesse ascoltato i suoi desideri; Arewen la fissò entusiasta, ma questa non si aprì, era ancora sigillata all'interno di quella maledetta torre.
Si allontanò, delusa, cercando conforto ammirando il suo amato paesaggio; alle sue spalle, dolcemente, un ramo d'edera cominciò ad infiltrarsi all'interno della torre, aprendo leggermente la porta.
La prigione (parte prima)
Arewen posò le sue piccole mani sulla balaustra, cercando di vedere il paesaggio sottostante. Dall'alto della torre tutto sembrava così piccolo agli occhi della bambina.
Si volse verso il padre, timorosa. «Papà?»
Enhand la fissò con i suoi profondi occhi bianchi, prova della sua divinità. «Dimmi, figliola, che succede?»
La bambina ricambiò lo sguardo, guardando il padre con espressione stupita. «Perché lasciamo soffrire la gente? Non siamo dei, noi?»
L'uomo sorrise: Arewen era sempre stata una bambina molto perspicace, ma soprattutto si era sempre preoccupata dei più deboli. «È difficile da spiegare, Arewen», sospirò, cercando di trovare le parole giuste per non far soffrire la figlia. «Non siamo sempre stati nascosti in questa torre, ti ricordo che, in fondo, siamo stati umani un tempo, l'unica ad essere dea dalla nascita sei tu, figlia mia, per questo non conosci le ragioni del nostro esilio.»
Arewen fissò il padre, non capendo ciò che le volesse raccontare.
«Molti secoli fa vivevamo in comunione con gli umani, noi stessi lo eravamo. Col passare del tempo, però. qualcosa in noi cambiò, anzi, forse non siamo mai stati totalmente mortali: fin da piccoli avevamo sviluppato una sensibilità unica, percependo l'universo e le sue leggi, entrando in comunione con esso e infine diventando noi stessi l'universo. A seconda delle nostre attitudini sviluppammo capacità uniche, dal controllare gli elementi s poter persino riportare in vita i morti. Ma non eravamo neppure totalmente dei, la nostra sensibilità ci impediva di essere neutrali di fronte alle sofferenze dei mortali, anzi ci costringeva ad aiutarli; certo, non potevamo alterare l'ordine dell'universo, ma con piccoli rimedi rendevamo loro la vita più semplice.»
Sospirò, deluso. «Non tutti gli umani, però, vivono in comunione con la natura: molti sono avidi, desiderosi di potere, assetati di sangue; per loro noi eravamo armi da sfruttare, semplici strumenti per poter sottomettere i più deboli. Ovviamente ci opponemmo, ma vedi, Arewen, i mortali sono vendicativi, provano sentimenti che fortunatamente noi non possiamo neppure immaginare.»
Si volse verso il padre, timorosa. «Papà?»
Enhand la fissò con i suoi profondi occhi bianchi, prova della sua divinità. «Dimmi, figliola, che succede?»
La bambina ricambiò lo sguardo, guardando il padre con espressione stupita. «Perché lasciamo soffrire la gente? Non siamo dei, noi?»
L'uomo sorrise: Arewen era sempre stata una bambina molto perspicace, ma soprattutto si era sempre preoccupata dei più deboli. «È difficile da spiegare, Arewen», sospirò, cercando di trovare le parole giuste per non far soffrire la figlia. «Non siamo sempre stati nascosti in questa torre, ti ricordo che, in fondo, siamo stati umani un tempo, l'unica ad essere dea dalla nascita sei tu, figlia mia, per questo non conosci le ragioni del nostro esilio.»
Arewen fissò il padre, non capendo ciò che le volesse raccontare.
«Molti secoli fa vivevamo in comunione con gli umani, noi stessi lo eravamo. Col passare del tempo, però. qualcosa in noi cambiò, anzi, forse non siamo mai stati totalmente mortali: fin da piccoli avevamo sviluppato una sensibilità unica, percependo l'universo e le sue leggi, entrando in comunione con esso e infine diventando noi stessi l'universo. A seconda delle nostre attitudini sviluppammo capacità uniche, dal controllare gli elementi s poter persino riportare in vita i morti. Ma non eravamo neppure totalmente dei, la nostra sensibilità ci impediva di essere neutrali di fronte alle sofferenze dei mortali, anzi ci costringeva ad aiutarli; certo, non potevamo alterare l'ordine dell'universo, ma con piccoli rimedi rendevamo loro la vita più semplice.»
Sospirò, deluso. «Non tutti gli umani, però, vivono in comunione con la natura: molti sono avidi, desiderosi di potere, assetati di sangue; per loro noi eravamo armi da sfruttare, semplici strumenti per poter sottomettere i più deboli. Ovviamente ci opponemmo, ma vedi, Arewen, i mortali sono vendicativi, provano sentimenti che fortunatamente noi non possiamo neppure immaginare.»
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